La legislatura europea che si sta per chiudere non è stata esattamente priva di forti emozioni. Quando tanti analisti parlano di «ritorno della storia», possiamo dire che in Europa il suo ritorno si è fatto sentire: Brexit, pandemia e invasione russa dell’Ucraina rappresentano quegli «eventi» che Harold Macmillan diceva essere ciò che più temeva in politica.
L’Unione europea ha dovuto affrontarli tutti a partire da un Parlamento frammentato e da una Commissione ostacolata da questa frammentazione. L’ampia rappresentanza dei Verdi ha pesato sul processo decisionale, spostando il baricentro a sinistra, mentre l’emergere della destra «alternativa» ha contribuito ad offuscare gli equilibri classici su cui si è tradizionalmente basata la stabilità politica dell’Unione. Tutto ciò ha spinto il centrodestra europeo, rappresentato dal PPE, su posizioni difensive, comprensibilmente più preoccupato di levigare gli spigoli altrui che di sviluppare una propria leadership.
La verità è che gli «eventi» hanno avuto un impatto significativo – e una duratura inerzia – sulle politiche europee. La pandemia ha imposto un «fermo» generalizzato, congelando le economie; si sono dovute adottare misure di emergenza che hanno inciso, in alcuni casi, sulla vita parlamentare e sulla normalità istituzionale di alcuni Stati europei; tutti i sistemi sanitari sono stati sottoposti a uno stress test di ampiezza e portata senza precedenti; si sono dovute improvvisare risposte a tutti i livelli che hanno portato a un’ipertrofia del settore pubblico e a un massiccio interventismo di emergenza, soggetto a controlli alquanto precari.
Nel dibattito pubblico, la divisione globale del lavoro è stata seguita dall’«autonomia strategica» come argomento di conversazione preferito, mentre gli Stati sono entrati in un limbo di sospensione delle regole fiscali, di ricorso illimitato al deficit, di indebitamento senza alcuna condizionalità… In breve, un vero e proprio «open bar» della spesa pubblica per «riaccendere» un motore economico che si era bloccato perché la produzione doveva essere fermata. Keynes tornò di moda nelle librerie e qualcuno dimenticò troppo presto che le politiche di stimolo – il pump priming, l’intervento della spesa pubblica per incoraggiare investimenti privati – non rispondevano questa volta a un fallimento del mercato, ma a una causa esogena: un virus altamente infettivo, non una fase recessiva del ciclo economico.
Certo, i vaccini dovevano essere acquistati e distribuiti, e bisognava evitare che una recessione abissale si trasformasse in una depressione letale. Ma ogni trattamento ha effetti collaterali e controindicazioni se viene prolungato oltre quanto consigliato dalla terapia. I governi si sono assestati su un’eccezionalità molto comoda: spendere senza tassare, indebitarsi senza responsabilità e legiferare senza controllo. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha avuto un impatto sulle catene del valore, sull’approvvigionamento energetico e ha generato tensioni inflazionistiche, ha accentuato questa dinamica.
Il nuovo Parlamento e la nuova Commissione dovranno costruire una nuova realtà e un nuovo equilibrio di poteri. Spero, e mi aspetto, che la famiglia europea del Partito Popolare riconfermi il suo status di forza politica di primo piano. L’Europa ha bisogno di una forza centrista capace di affrontare con prudente fermezza le sfide che sono già qui, da una posizione fedele alla sua storia e capace di guidare i dibattiti che si presentano, articolando possibili maggioranze al servizio della libertà. Confido che la presidente Meloni possa svolgere un ruolo importante nella costruzione di questo nuovo ciclo, confermando in Europa l’orientamento realistico, a vocazione maggioritaria, che ha voluto imprimere alla politica italiana.
Credo che nell’agenda strategica dell’Unione si possano individuare chiaramente quattro sfide principali. In primo luogo, è imperativo rafforzare lo Stato di diritto. Lo scivolamento verso forme illiberali di democrazia, l’effetto corrosivo del populismo e l’impatto della disinformazione sono gravi fattori di deterioramento istituzionale che minano la fiducia dei cittadini.
In secondo luogo, l’Europa deve affrontare un’enorme sfida sociale e culturale. La crisi demografica diventerà molto visibile nei nostri mercati del lavoro con il pensionamento della generazione del baby boom. Con l’attuazione del nuovo quadro europeo per l’immigrazione e l’asilo, la posta in gioco è alta per ottenere il giusto approccio all’immigrazione sia in termini di problema che di soluzione.
La terza sfida è di natura economica. L’Europa deve tornare a un percorso di equilibrio dei conti pubblici nazionali e generare più crescita per finanziare i costi crescenti del suo modello di welfare. L’Unione deve essere consapevole dell’ambiente competitivo globale in cui opera a tutti i livelli e agire di conseguenza. Molti programmi dovranno adattarsi a questa realtà inevitabile; altri dovranno essere sottoposti a una valutazione rigorosa per rendere conto dei loro effettivi risultati: l’utilizzo nazionale dei fondi Next Generation, ad esempio, dovrà essere monitorato, valutato e pubblicato.
La quarta sfida è senza dubbio strategica: che ruolo vuole avere l’Europa nel mondo? Con una guerra non alle porte, ma in Europa stessa; un conflitto in Medio Oriente che include attori pericolosi come l’Iran; un’elezione presidenziale negli Stati Uniti con un orizzonte incerto per le relazioni transatlantiche… In un simile scenario, l’Europa non può evitare una risposta udibile e comprensibile a livello globale se non vuole passare da soggetto a oggetto della storia. Russia e Cina, d’altra parte, non cesseranno di essere, da un giorno all’altro, una costante cartina di tornasole per la coesione interna dell’Unione e per ricordarci che, nel mondo di oggi, gli idilli autoreferenziali sono finiti.
Continuo a credere che la migliore guida per il futuro dell’Europa sia ciò che l’ha resa tale: la libertà ordinata e la razionalità critica. Un grande liberale italiano, il professor Nicola Matteucci, ha condensato le sue riflessioni sul ruolo della libertà nel mondo contemporaneo in un magnifico libro, Il liberalismo in un mondo in trasformazione. Il libro si apre con una citazione di Tocqueville sul timore di essere accusati di manifestare «un amore per la libertà un po’ antiquato». Lì Matteucci argomentava la sua visione del liberalismo come, prima di tutto, una risposta a una sfida.
Credo che la visione di Matteucci del liberalismo come teoria empirica, non speculazione astratta, e quindi come «risposta alla sfida» di ogni sviluppo politico in un determinato momento storico, sia ancora oggi molto valida. Da qui si possono trovare soluzioni affidandosi al diritto e alle istituzioni che la civiltà europea ha costruito. Alla libertà non mancheranno mai sfide e avversari, come lo sono stati in epoche diverse l’assolutismo, il conformismo di massa e il totalitarismo.
La malattia delle nostre società, tentate di abbandonare l’eredità liberale a favore di due nemici fratelli – il populismo e la tecnocrazia – è stata diagnosticata molte volte; un italiano, Nicola Matteucci, e uno spagnolo, José Ortega y Gasset, hanno concordato sulla diagnosi. Sono felice di poter dire che erano d’accordo anche sulla ricetta: la limitazione del potere per legge come garanzia di libertà.
Questa idea centrale della civiltà europea deve continuare a ispirare la costruzione dell’Unione europea di oggi.